giovedì 19 gennaio 2012

FACCIAMO IL PUNTO SU: IL VERISMO, G.VERGA (1840-1922)

Dopo il 1870 Luigi Capuana dà vita a Milano, insieme a Giovanni Verga (1840-1922) al movimento verista, che si prefigge di riproporre in Italia la poetica del Naturalismo francese. Il movimento verista nasce nella seconda metà degli anni settanta a Milano, città che era divenuta, grazie al rapido sviluppo industriale, uno dei centri culturali più vivi e ricettivi della nazione, come dimostrava il recente fenomeno della Scapigliatura. L’evento decisivo è l’uscita nel 1877 del romanzo L’Ammazzatoio di Emile Zola, subito recensito da Luigi Capuana sul “Corriere della Sera”. Di lì a pochi mesi Luigi Capuana, insieme all’amico catanese Giovanni Verga, allo scapigliato Roberto Sacchetti e a Felice Cameroni, decidono di tentare anche in Italia una poetica ispirata ai principi del Naturalismo. La poetica del verismo si fonda taluni principi fondamentali:
• L’ARTE COME INVESTIGAZIONE SCIENTIFICA DELLA REALTÀ SOCIALE
• IL ROMANZO DIVIENE UN “DOCUMENTO UMANO” : Il romanzo come genere letterario che fotografa, con spietato realismo, i comportamenti individuali e sociali.
• Il fattore ereditario e l’ambiente sociale come fattori condizionanti della vita dell’uomo. Alla luce di queste teorie anche i fenomeni psichici rientrano, come tutti i fenomeni biologici, nelle leggi del “Determinismo scientifico” che impone una spietata lotta per la sopravvivenza.

• CANONE DELL’IMPERSONALITA’. ECLISSI DEL NARRATORE. SCOMPARSA DEL NARRATORE ONNISCIENTE → (NARRATORE ESTERNO; FOCALIZZAZIONE ESTERNA/ FOCALIZZAZIONE INTERNA VARIABILE) “..la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, e il romanzo avrà l’impronta dell’avvenimento reale, e l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé” (Prefazione de “L’amante di Gramigna”, di G. Verga, da Vita dei campi , 1880). La focalizzazione interna si manifesta soprattutto nella presenza del “Narratore popolare”: il narratore assume il punto di vista dei vari personaggi della vicenda, di cui riporta pensieri, espressioni tipiche del parlato quotidiano, proverbi ed espressioni gergali (“In quell’ora fra vespero e nona, in cui non ne va in volta femmina bona”) , similitudini e metafore tratte dal mondo contadino. Tra gli artifici a disposizione del Narratore popolare, ricordiamo l’uso sistematico del “Discorso indiretto libero”( Il narratore riporta i pensieri o le espressioni tipiche dei personaggi senza introdurli attraverso verbi dichiarativi ( “Egli invece era stato sano e robusto, ed era malpelo, e sua madre non aveva mai pianto per lui perché non aveva mai avuto timore di perderlo”= Rosso Malpelo diceva che egli invece era stato sano e robusto…)
• LA MIMESI LINGUISTICA – REGRESSIONE LINGUISTICA DEL NARRATORE: l’arte del Naturalismo francese, e successivamente del Verismo , cerca di adattare la lingua della narrazione alla realtà popolare rappresentata, mediante la tecnica del “Discorso indiretto libero” e mediante il calco del gergo tipico delle desolate campagne siciliane nella seconda metà dell’Ottocento. La mimesi del linguaggio, ottenuta attraverso l’acquisizione dei tratti stilistici del parlato quotidiano, si realizza nella presenza di squarci dialettali, di espressioni proverbiali in dialetto siciliano. Nei romanzi veristi è evidente la ripresa di strutture sintattiche e di espressioni tipiche del linguaggio parlato, come per esempio l’ uso pleonastico del pronome; l’uso di forme pronominali dialettali (ste belle notizie), la ripetizione enfatica (voleva trargli fuori le budella dalla pancia, voleva trargli).



IL VERISMO tuttavia sin dal suo sorgere presenta differenze sostanziali rispetto al Naturalismo francese.
• La prima sostanziale differenza risiede nel metodo di rappresentazione della realtà. Il metodo d’indagine verista non è più tanto quello fotografico, bensì quello dell’osservazione, dell’introspezione psicologica: il personaggio verista vive di luce propria, e lo scrittore alimenta questa luce attraverso il metodo conoscitivo legato ai particolari della realtà.
• Nel rapporto ESSERE UMANO –NATURA prevale sempre l’essere umano. Quest’ultimo è analizzato costantemente nei suoi rapporti con le strutture sociali, ma l’oggetto vero di indagine letteraria resta pur sempre l’uomo (vedi Realismo romantico), non più inteso come soggetto patologico, bensì come creatura umana, analizzata nono soltanto negli aspetti concreti, ma anche nei risvolti morali e psicologici.
• Nel Naturalismo è la Natura che sovrasta il mondo ed è causa determinante anche dei valori morali dell’uomo (responsabilità morale della natura); nel Verismo, invece, emerge sempre la figura dell’uomo, in cui lo scrittore si perde del tutto.

METODO FOTOGRAFICO ↔ INDAGINE PSICOLOGICA
SOGGETTO PATOLOGICO ↔ ESSERE UMANO
UOMO – NATURA ↔ UOMO - NATURA


L’arte verista resta comunque un’arte impersonale poiché lo scrittore verista non deve dimostrare attraverso il suo personaggio delle particolari verità o tesi, sono i personaggi che intessono essi stessi il racconto e vivono di luce propria : “l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé” (Prefazione “L’amante di Gramigna”)
I PERSONAGGI dell’opera verista non sono consapevoli della realtà in cui essi si trovano ad agire, non ne comprendono in pieno la matrice storica, politica e sociale. Essi sono immersi nella secolare immobilità culturale e sociale della Sicilia borbonica , ancorati saldamente ad un arcaico codice di valori tradizionali che regolava i rapporti interpersonali e sul quale si fondava la sacra etica familiare. I personaggi dei racconti e dei romanzi veristi sono umili contadini, pescatori, minatori, prostitute, carrettieri, briganti, pastori, personaggi emarginati dalla comunità; tutti destinati a soccombere in una società regolata dal principio darwiniano della “lotta per la sopravvivenza”; la maggior parte di essi appaiono rassegnati all’accettazione del loro status e del pregiudizio popolare con atteggiamento disincantato, nella pessimistica consapevolezza dell’inesorabilità delle leggi di natura ( nessuno può sfuggire al proprio destino). All’ottica idealizzata e ottimistica, alla visione provvidenzialistica che aleggia nei Promessi Sposi, si sostituisce una visione profondamente pessimistica e disincantata della realta umana, fatta di sofferenze e prevaricazioni, alla quale nessuno può sfuggire. IL PESSIMISMO DI VERGA (espresso pienamente nei romanzi del ciclo dei vinti : I Malavoglia 1881, Mastro Don Gesualdo 1889) risiede nell’accettazione fatalistica della realtà ostile, che nulla vale a mutare o a consolare.
Se gli umili del Manzoni rappresentavano una realtà inevitabilmente deformata e idealizzata dall’ottica onnisciente del narratore borghese, nutrivano fede in Dio, fonte di speranza in un futuro di giustizia e di riscatto morale; apparivano rassegnati, e allo stesso tempo fiduciosi nell’intervento provvidenzialistico divino, gli umili di Verga accettano fatalmente e con rassegnazione eroica e disincantata il loro destino di miseria e di emarginazione, e qualora tentano di risalire la scala sociale alla ricerca del successo e del benessere, rimangono vittima di una sorte avversa e ostile. Nei personaggi di Verga vi è la rassegnazione fatalistica, aliena da ogni sentimento di conforto che possa scaturire dalla fede in Dio.

TEMI E CONTENUTI DELLE OPERE DI G. VERGA

• LA LOTTA “DARWINIANA” PER LA SOPRAVVIVENZA
• IL MITO DEL SUCCESSO ECONOMICO – LA LOGICA ECONOMICA che prevale necessariamente sugli affetti familiari. Il tema della “roba”.
• LA RELIGIONE DELLA FAMIGLIA- “ideale dell’ostrica”
Il personaggio verghiano è legato alla terra nel senso della conservazione dei valori della tradizione: egli mostra un tenace attaccamento alla terra d’origine – la Sicilia - nonostante essa appaia teatro di miserie e di immobilismo sociale, modello di rassegnazione ad un destino di esclusione e sconfitta. Tale attaccamento, morboso e conflittuale, si manifesta nella rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti e di soprusi. La “terra” è presente attraverso un ampio bagaglio di simboli e metafore tratte dall’universo contadino. La Sicilia che emerge nei racconti di verga è quella rurale e arretrata della seconda metà dell’ottocento, con il suo immobilismo culturale, con il suo codice di valori arcaici sul quale si fondava l’etica familiare e i rapporti interpersonali. Le novelle e i romanzi veristi sono tutti ambientati in Sicilia, una terra che diviene l’emblema di una irriducibile diversità, il simbolo del fallimento degli ideali nazionali, fino a farsi metafora, con i suoi paradossi , della sconfitta in cui incorre costantemente la ragione umana allorché confida in false illusioni e falsi miti. (Concezione pessimistica del Progresso e dei rapporti umani).
• L’AMORE inteso come puro istinto sessuale che travolge ogni valore morale; l’eros come degradazione a livello ferino. L’assimilazione allo stato bestiale dell’amore è sostenuta da frequenti similitudini, metafore e proverbi che rimandano simbolicamente alla civiltà contadina .

• LA DISTORSIONE DEI VALORI, IL RELATIVISMO DEI VALORI rappresentato mediante l’artificio dello “straniamento”, dove cioè i giudizi della comunità, palesemente distorti o infondati ,vengono presentati come del tutto oggettivi e normali (Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi, colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva che la razione di busse non gliela aveva levata mai il padrone; ma le busse non costavano nulla”)

• LUCI ED OMBRE DEL PROGRESSO – MATERIALISMO E PESSIMISMO- MORTE COME UNICO RIMEDIO AL MALE: Verga assume un atteggiamento critico rispetto alla nozione positivista di progresso, cioè l’idea, propria della cultura del tempo, di un graduale miglioramento delle condizioni materiali e spirituali dell’intera umanità. Verga non nega questa questa convinzione, ma sottolinea come le grandi conquiste collettive facciano passare sotto silenzio le miserie e le nefandezze, le ipocrisie e gli egoismi individuali che al progresso si accompagnano: “Nella luce gloriosa che l’accompagna dileguansi le irrequietudini, le avidità, l’egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l’immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità”Il risultato umanitario copre quanto c’è di meschino negli interessi particolari che lo producono;” (Prefazione de “I Malavoglia”). Emerge così in modo netto come il materialismo verghiano sia legato ad una concezione fortemente pessimistica della realtà. L’autore riconduce ogni azione umana a desideri e ambizioni di natura egoistica, escludendo così di fatto che gli uomini possano essere mossi da aspirazioni moralmente elevate.

domenica 8 gennaio 2012

LA LETTERATURA DELL'UNITA' : LE COORDINATE STORICHE

1. L’UNITA' IMPERFETTA
Il conseguimento dell’unità nazionale, sancito il 17 marzo 1861 con la proclamazione del Regno d’Italia, costituiva certamente il coronamento di un programma risorgimentale gestito per gran parte dalla borghesia moderata dei vari Stati italiani, e tuttavia aggiungeva nuovi problemi a quelli, già di per sé assai gravi, rimasti aperti. L’alta borghesia settentrionale, presto alleatasi con un’ aristocrazia a sua volta imborghesita e rapidamente convertita alla linea unitaria e costituzionale, era l’unica forza italiana ad avere espresso un programma di sviluppo politico e sociale complessivo e coerente, e ciò le valse la leadership incontrastata all’interno del movimento moderato, cui si contrapponeva un movimento democratico diviso e spesso contraddittorio tanto negli obiettivi proposti quanto nei progetti per la loro realizzazione. Il programma dei moderati, ispirato ai principi del liberalismo di primo Ottocento, prevedeva un armonico sviluppo industriale delle singole regioni italiane, favorito da un ampia autonomia amministrativa e basato sulla libertà d’impresa. Tale progetto si scontrava con le condizioni di estrema arretratezza dell’Italia meridionale e con la fragilità dell’egemonia politica appena realizzata, insidiata dall’aperta ostilità della Chiesa e dal dissenso di una piccola borghesia che non vedeva corrispondere al proprio accresciuto peso sociale un analogo incremento della partecipazione alle sorti politiche del nuovo Stato. Fu così giocoforza, per la borghesia imprenditoriale del Nord, stringere un’alleanza con la borghesia agraria e latifondista del Meridione, che garantì il proprio sostegno al programma unitario a patto che non venisse intaccato il proprio dominio sulle plebi contadine: a patto cioè che i contadini del Sud rimanessero nelle condizioni di miseria, analfabetismo e ghettizzazione che risultavano le più idonee per il loro sistematico sfruttamento. Ciò determinò un grave scompenso nella crescita complessiva del paese, che influì molto negativamente sulla modernizzazione dell’agricoltura e sullo sviluppo sociale del Mezzogiorno, con effetti che si avvertono ancora oggi. Anche il piano di decentramento amministrativo e di autonomie regionali, che avrebbe potuto incentivare le risorse locali, rimase lettera morta di fronte alla necessità per il partito moderato di compensare la sua esigua base sociale con un ferreo controllo centrale delle risorse e degli investimenti: ciò conferiva necessariamente al Piemonte e alla capitale Torino un ruolo di assoluto privilegio nella nuova compagine statale, rendendo il processo unitario più simile a un’ operazione di tipo coloniale da parte dell’ex Regno di Sardegna, che non al solidale convergere di iniziative locali verso obiettivi da tutti voluti e interpretati allo stesso modo. Non ultimo per importanza, fra i problemi che il nuovo Stato si trovò ad affrontare, era il completamento dell’unità nazionale con l’annessione del Veneto e di Roma. Punto irrinunciabile della propaganda democratica, che vi coglieva l’ultima occasione per rilanciare il movimento insurrezionale, la questione influenzò profondamente la politica interna ed estera del Regno d’Italia nel suo primo decennio di vita, rivelò la scarsa autonomia dei Savoia rispetto alle potenze europee e soprattutto mise in luce la vocazione repressiva dei governi post-unitari, assai preoccupati dalle eventuali rivendicazioni popolari che la liberazione di Venezia o Roma per via di insurrezione democratica avrebbe potuto stimolare. Le difficoltà dell’Italia unitaria, insomma, appaiono legate- né poteva essere altrimenti - al modo in cui il Risorgimento si era realizzato e all’impronta sostanzialmente moderata e conservatrice che esso aveva storicamente ricevuto: il ferimento di Garibaldi all’Aspromonte da parte dell’esercito regio può costituire l’episodio emblematico della definitiva abdicazione dell’iniziativa popolare e democratica a favore della ragion di stato e del contesto politico internazionale.

2. LA DINAMICA POLITICA E SOCIALE
I primi governi della Destra storica, che deteneva una larga maggioranza in un parlamento eletto in poco più di quattrocentomila elettori selezionati in base al censo, si trovarono divisi tra le sempre più pressanti richieste dei democratici che pretendevano la liberazione del Veneto dal dominio austriaco e la liberazione di Roma dal dominio pontificio, e le esigenze del concerto internazionale, soprattutto di Napoleone III, rivolte ad una conservazione dello status quo e alla protezione anche militare, da parte francese, della sovranità temporale del Papa.
L’ambiguità del governo italiano apparve chiara fin dal 1862, quando Giuseppe Garibaldi organizzò un corpo di volontari che risalendo dalla Sicilia attraverso l’Italia meridionale sarebbe dovuto giungere fino a Roma. L’atteggiamento di Vittorio Emanuele II e del presidente del consiglio Urbano Rattazzi, che all’inizio poteva essere interpretato come un tacito incoraggiamento all’impresa, mutò radicalmente in seguito alla reazione di Napoleone III e al pericolo che il passaggio dei garibaldini provocasse un' insurrezione democratica nelle popolazioni meridionali: un corpo di spedizione dell’esercito regio fu inviato in tutta fretta ad intercettare i volontari in Aspromonte, e nel breve scontro a fuoco che ne seguì lo stesso Garibaldi fu ferito ad un piede. L’impressione sull’opinione pubblica fu enorme, e costrinse il ministro Urbano rattazzi Rattazzi alle dimissioni; ma non determinò cambiamenti nella politica italiana, sempre più orientata ad affidare al mutevole gioco degli equilibri internazionali la soluzione della questione.
L’Austria e la Francia era i due maggiori rivali della politica espansionistica della Prussia di Birmarck; questi Paesi costituivano un insormontabile ostacolo per il compimento dell’unità nazionale italiana: il Veneto faceva parte dell’Impero Asburgico, mentre lo stato Pontificio era sotto la protezione di Napoleone III, che nel 1864 aveva imposto a Vittorio Emanuele II lo spostamento della capitale da Torino a Firenze, come segno della definitiva rinuncia a Roma dello stato Italiano.
Garantitosi un secondo fronte grazie ad un alleanza offensiva, con l’Italia nel 1866 Birsmarck attaccò e sconfisse in breve tempo l’Austria, nonostante le conquiste subite dall’esercito italiano a Lissa e a Custoza (terza guerra di indipendenza); in seguito alla Pace di Praga il Veneto fu definitivamente annesso all’Italia. Quattro anni più tardi, nel 1870, i colpi d’ariete dell’esercito prussiano sgretolavano a Sedan la potenza militare francese, e determinavano la caduta del Secondo impero, lasciando all’Italia campo libero per la liberazione di Roma che avvenne quasi senza colpo ferire il 20 Settembre dello stesso anno.
Si risollevavano così le più due gravi questioni territoriali rimaste aperte per lo stato unitario. In ambedue i casi la soluzione non fu determinata da un iniziativa autonoma , bensì solo dal favorevole decorso dei conflitti fra le potenze europee. Si perse in questo modo l’occasione di cementare sotto una bandiera ideale la precaria compagine sociale e morale della nuova Italia.
Dopo aver represso fra il 1861 e il 1865 il brigantaggio meridionale, che era la spia più evidente del disagio e dell’arretratezza di quelle popolazioni, i vari governi della Destra si dedicarono a un difficile risanamento del bilancio statale perseguito attraverso una fortissima repressione fiscale che colpiva soprattutto l’agricoltura, impoverendo ulteriormente le già miserrime plebi contadine. Anche il patto sociale stabilito fra moderati settentrionali e latifondisti meridionali fece sì che la riforma agraria ben avviata al nord con positive conseguenze sullo sviluppo dell’agricoltura rimanesse al sud quasi del tutto inefficace, lasciando intatti anzi incrementando tanto il latifondo quanto il regime di odioso sfruttamento bracciantile. Lo stesso fenomeno migratorio fu ostacolato con leggi restrittive allo scopo di non diminuire l’offerta di braccia e mantenere quindi bassissimo il prezzo della manodopera, e solo intorno al 1890si provvide a liberalizzare l’emigrazione.
Neanche la cosiddetta “rivoluzione parlamentare” del 1876 che portò al potere la sinistra di Agostino De Pretis valse a mutare gli indirizzi generali della politica italiana. La riforma elettorale del 1882 cominciò a escludere dal voto gli analfabeti e i nullatenenti privando di fatto dei diritti politici la stragrande maggioranza meridionale; anche l’obbligatorietà di un biennio di istruzione elementare introdotta dalla legge Coppino del 1877 rimase largamente inoperante soprattutto al sud: la cosiddetta “questione meridionale” si aggravò così sempre di più divenendo il principale ostacolo sulla via di uno sviluppo industriale e tecnologico del Paese.
D’altra parte la classe imprenditoriale italiana aveva assoluto bisogno di un sostegno statale per una politica di industrializzazione diffusa. I costi delle iniziative che il governo italiano prese per il potenziamento dell'apparato industriale si riversarono inevitabilmente sull’agricoltura, attraverso il progressivo aumento della pressione fiscale e l’abbandono a se stesso del latifondo meridionale, che risultava coltivato sempre peggio e con una sempre più ingiusta ripartizione dei guadagni che ne derivano.
Il decennio 1880-1890 fu così segnato da uno sviluppo industriale piuttosto modesto i cui costi si scaricarono su un tessuto sociale gravemente compromesso, con la spaccatura tra nord e sud molto approfondita e con dei diffusi fermenti di protesta non solo contadina che nel decennio successivo avrebbero avuto drammatici sviluppi.


3. I MOVIMENTI IDEOLOGICI

Dal punto di vista delle ideologie, il dato più rilevante del trentennio compreso fra il 1860 e il 1890 è la nascita e il consolidamento del movimento comunista internazionale, in stretta dipendenza dal marxismo e dai suoi sviluppi teorici. Al rapidissimo sviluppo del capitalismo, che nei maggiori Paesi europei entra già a partire dal 1870 nella sua fase monopolistica - fatta di grandi concentrazioni industriali libere da problemi di concorrenza, e quindi padrone incontrastate tanto del mercato quanto dei rapporti di lavoro con la classe operaia -, corrispose un'organizzazione altrettanto rapida dei lavoratori, le cui associazioni spontanee trovarono nelle dottrine di Karl Marx (1818-1883) e nella prassi politica comunista il connettivo più efficacie e duraturo. Nel 1864 nasceva così la prima Associazione Internazionale degli Operai, meglio nota come “Prima Internazionale” nella quale lo stesso Marx, che tre anni dopo avrebbe pubblicato il volume del Capitale, svolse un ruolo organizzativo di grande rilievo.
L'ideologia comunista, ancorata alla prospettive del "Socialismo scientifico" di Marx, conteneva in sé una carica palingenetica che andava ben al di là dell'obiettivo di migliorare le condizioni di vita degli operai o trasformare a favore del proletariato la dinamica dei rapporti di produzione: la "società senza classi", coronamento di un'attività rivoluzionaria che doveva basarsi sulla "lotta di classe" per poi superarla, si configurava, in fondo, come l'utopia di un Mondo totalmente nuovo, fondato su principi di uguaglianza e giustizia sociale ben più profondi ed efficaci di quelli che governano il presente. Fu proprio tale apertura utopistica a determinare l'adesione alla causa marxista di un gran numero di intellettuali che vi ravvisarono un potente strumento di opposizione alla società borghese.
Del resto, vari fermenti di socialismo utopistico circolavano in Europa da prima del 1848, anno di pubblicazione del Manifesto del Partito comunista; e anche se l'adesione alla prassi rivoluzionaria risultava spesso variamente sfumata in senso riformistico, non c'è dubbio che quelle forze preesistenti contribuirono non poco alla diffusione capillare del marxismo tanto fra le masse operaie quanto nei ceti intellettuali.
I punti-cardine della strategia comunista erano l'abbattimento violento del sistema capitalistico, l'abolizione della proprietà privata e la collettivizzazione dei mezzi di produzione. Anche le strutture dello Stato borghese andavano abbattute e sostituite da uno Stato che fosse emanazione diretta della <>, necessaria fase intermedia verso quella società senza classi e senza Stato che costituiva l'obiettivo finale del processo storico.
Il marxismo si qualificava in tal senso come la risposta più compatta e radicale del movimento operaio allo sviluppo del capitalismo; ma il problema del riscatto sociale delle classi più povere trova in questo periodo anche le altre soluzioni ideologiche - vedi Joseph Proudon (1809-1865; Michail Bakunin (1814-1876)-.

In ITALIA la situazione si presenta sensibilmente diversa. Abbiamo già visto infatti come lo sviluppo capitalistico fosse nel nostro Paese molto più arretrato e difficoltoso che nel resto dell’Europa occidentale. Tale condizione rendeva più problematico il sorgere di una coscienza operaia e quindi più lenta e tortuosa la diffusione delle idee socialiste. Del resto GIUSEPPE MAZZINI, che continuava a costituire il punto di riferimento per lo schieramento repubblicano e progressista italiano, era un fermo oppositore del marxismo e del socialismo (netta per esempio era stata la sua condanna dell’esperienza della Comune di Parigi); e la forte penetrazione degli ideali repubblicani presso gli strati urbani più poveri agì da diga nei confronti delle indicazione della Prima Internazionale. Solo nel 1882 si formò in Italia, sotto la direzione di Andrea Costa (1851-1910), un piccolo partito operaio indipendente di ispirazione socialista, che dieci anni più tardi (1892) Filippo Turati (1857-1932) avrebbe trasformato nel Partito socialista italiano.

Ben più rilevante, per il periodo in esame, fu la diffusione dell'ANARCHISMO BAKUNINIANO /i>, che trovava terreno fertile tanto nella popolazione contadina, quanto in alcuni settori della classe operaia e del sempre crescente sottoproletariato urbano. Nelle parole d’ordine dell’anarchia, con il loro ribellismo spesso generico e con l’esaltazione dell’atto individuale svincolato da qualsiasi strategia complessiva, poteva però riconoscersi anche l’insofferenza antiborghese di numerosi intellettuali soprattutto settentrionali, nutriti di idealismo di matrice romantica e pronti a trasferire nei comportamenti e nei costumi la carica trasgressiva nei confronti del valori riconosciuti. Pur se privi di un programma politico in positivo, tali intellettuali – per gran parte artisti e scrittori come ad esempio gli Scapigliati- contribuirono comunque, anche attraverso lo “scandalo” destato presso i benpensanti, a rendere problematica la cultura espressa dalla classe al potere, innervandola di dubbi e contestazione, e inaugurando un’arte “di opposizione” che si può considerare per molti versi all’origine della prassi novecentesca delle avanguardie storiche.

Un discorso a parte va fatto, almeno in Italia, per le IDEOLOGIE DI MATRICE CATTOLICA. Il “non expedit” con cui Pio IX, nel 1874, vietava ai cattolici di partecipare alla vita politica di uno Stato resosi “colpevole” della breccia di Porta Pia determinò di fatto un isolamento del mondo cattolico dai più impellenti problemi di gestione economica e organizzazione sociale che si ponevano all’Italia unita; e quindi lo tagliò fuori, almeno per i primi tempi, dal dibattito spesso violento sulle condizioni dei lavoratori, sulla natura del capitalismo, sul socialismo.
Circoli e associazioni cristiano-sociali si formarono dopo il 1870 anche in Italia e si caratterizzarono per un’intensa propaganda antisocialista che agiva su operai e contadini attraverso forme associative e organizzative legate alle diocesi o alle parrocchie. Ma la vicinanza al soglio pontificio e le particolari condizioni politiche indotte dal “non expedit” non solo conferirono una particolare virulenza alla predicazione antisocialista, ma spesso arrivarono a coinvolgere, sotto la comune accusa di <>, anche le strutture dello Stato italiano (del resto figlie di quel liberalismo economico che la dottrina cristiano-sociale condannava). Solo nel 1891, l’enciclica Rerum novarum di papa Leone XIII potè mettere un po’ d’ordine nel movimento cattolico, attenuando le punte antistatali ed eversive e promuovendo una più mirata attività dei cattolici presso le masse lavoratrici, che a poco a poco spostò di fatto la Chiesa su posizioni meno conservatrici e più aperte ai problemi sociali.

4. INTELLETTUALI E ISTITUZIONI CULTURALI


La prima metà dell'Ottocento è dominata da una nuova figura di intellettuale,svincolato dalle corti e dalle gerarchie ecclesiastiche e sostenuto da un'industria editoriale che cominciava a giovarsi sempre più dell'allargamento del pubblico e della crescente alfabetizzazione. Tale fenomeno era però limitato quasi esclusivamente al Lombardo-Veneto e al Piemonte,la cui qualità di Stati autonomi,dotati di una classe imprenditoriale particolarmente vivaci e di un'amministrazione complessivamente assai accorta, favoriva di fatto nuovi sbocchi sociali del ceto intellettuale.
Una volta unificata l'Italia,le proporzioni del fenomeno,riportate su scala nazionale, mutarono bruscamente:il modello settentrionale non poteva infatti essere esteso a un paese in cui, ancora nel 1861 il 78% della popolazione era analfabeta,con punte del 95% nel Meridione. Il ceto intellettuale dell'Italia unitaria si trovò perciò ad agire su" uno strato sociale estremamente ristretto che non poteva a sua volta non condizionarlo,sia nel senso di realizzare un ricambio pressoché obbligato al proprio interno, sia nel senso di un oggettiva difficoltà a uscire dagli orizzonte ideali e politici che caratterizzavano la classe dominante" (A. ASOR ROSA ).
Gli sforzi dello Stato unitario nel campo culturale ci concentrarono soprattutto sulla riorganizzazione della scuola,che presentava caratteristiche assai diverse nelle varie regioni e che aveva innanzi tutto bisogno di un profondo ricambio di docenti,con l'ingresso di intellettuali omogenei alle idee unitarie e liberali da cui nasceva il Regno D'Italia.Sia pure con molte disuguaglianze fra Nord e Sud e con numerose contraddizioni interne,il lavoro organizzativo diede buoni frutti,elevando complessivamente il livello culturale medio della popolazione italiana e consentendo a partire dal decennio Ottanta una forte ripresa dell'attività editoriale e giornalistica,che fino a quel momento aveva dovuto segnare il passo.
Le ripercussioni negative della situazione in generale all'indomani dell'unità d'Italia si fecero sentire soprattutto su artisti e letterati:mentre infatti gli intellettuali con competenze tecniche-scientifiche o economiche potevano provare senza troppe difficoltà un ruolo nel lavoro necessario per la costruzione del nuovo Stato,i depositari della creatività artistica si trovarono invece a fronteggiare una grave crisi di committenza. L'austera politica economica della Destra destinava poco o nulla alle attività culturali e i nuovi ricchi borghesi si dimostravano molto più insensibili degli aristocratici alla protezione delle arti liberali. Dall'altra parte l'editoria tutta accentrata fra Lombardia e Piemonte vide aumentare a dismisura i propri costi di gestione per l'improvviso allargarsi della sua base territoriale senza che ciò corrispondesse un apprezzabile incremento del mercato,visto la pressoché totale assenza di pubblico alfabetizzato in quasi tutte le regioni appena entrate a far parte del regno d'Italia.
In conseguenza di ciò i letterati italiani,la cui provenienza di classe era ormai in maggioranza medio-piccolo borghese, e quindi tale da non consentire cospicui appoggi finanziari di origine familiare,si trovarono spesso in condizioni economiche assai difficili:se la " bohème" fu per alcuni una scelta di vita,per altri costituì una vera e propria necessità. Si verificò,in altri termini,una parziale "proletarizzazione" del letterato,con conseguenze talvolta non trascurabili sulla natura stessa e sulla destinazione dell'attività creativa.
La situazione cominciò a mutare in meglio intorno al 1880, grazie all'enorme favore incontrato nel pubblico dei cosiddetti "romanzi di appendice",che venivano pubblicati a puntate da quotidiani e periodici, e al rilancio dell'attività editoriale che trovò in Firenze e Roma i nuovi centri di diffusione e di iniziativa:basti pensare al caso di Giovanni Verga,che riuscì a vivere sempre del suo escluso lavoro di scrittore, e che realizzò lauti guadagni grazie ai diritti di autore di una sua novella, Cavalleria Rusticana, divenuto nel 1890 un melodramma di grande successo per la musica di Pietro Mascagni.
In ogni caso la condizione di intellettuali e istituzioni culturali nel primo trentennio dell'unità d'Italia si presentava alquanto difficile,in relazione alle condizioni di grave arretratezza del paese alle fortissime differenziazioni locali e alla scarsissima base sociale su cui la cultura poteva contare.



LE COORDINATE GEOGRAFICHE: i centri di diffusione letteraria

La cultura letteraria dell’ Italia unita non poteva non risultare somma delle singole culture espresse dagli Stati precedentemente divisi: è comunque indubbio che grazie alle maggiori possibilità di comunicazione e di circolazione delle idee conseguenti alla caduta dei confini interni,nel periodo 1860-1890 si verificò un sostanziale mutamento negli equilibri geografici della produzione letteraria. Praticamente assente dalla ribalta della letteratura internazionale per tutto il Settecento e per la prima metà dell’Ottocento,il Sud fa ora improvvisamente sentire la sua voce: il VERISMO,che è senza dubbio il più importante fenomeno narrativo di questa fase,reca tratti spiccatamente meridionali, e in particolar modo siciliani, grazie alle personalità di Giovanni Verga, Luigi Capuana e Federico De Roberto. E’ però molto significativo che i tre maggiori rappresentanti del Verismo siciliano abbiano trascorso a Milano lunghi periodi della loro esistenza: i loro strumenti espressivi, nutriti dalla realtà isolana in cui erano nati e cresciuti, avevano comunque bisogno del contatto con una civiltà letteraria più avanzata e complessa, oltre che con strutture culturali infinitamente più efficienti e ramificate. Certo non furono estranee al perfezionamento della poetica verista le influenze della Scapigliatura,fenomeno esclusivamente lombardo e piemontese, anzi largamente tributario di esperienze francesi,che tuttavia elaborò una visione del mondo capace di agire sulle sensibilità tanto lontane e appartate di quel manipolo di intellettuali siciliani saliti al Nord. Da questo punto di vista si può dire che il verismo è stata la prima manifestazione autenticamente nazionale della letteratura italiana,per la quale sarà sempre più difficile,d’ora in poi,individuare delle coordinate geografiche di particolare rilievo e significato.

Si può però rilevare che il risveglio del Meridione, purtroppo solo letterario, non si limita alla sola Sicilia: nella seconda metà dell'Ottocento è molto attiva anche Napoli, dominata dalla figura di Francesco De Sanctis e ricca di esperienze autoctone solo tangenzialmente riconducibili al verismo,come quelle di Salvatore Di Giacomo o di Matilde Serao; e si comincia a produrre letteratura anche in regioni rimaste lungamente silenti,come la Calabria di Vincenzo Padula e Nicola Misasi.

L’eredità dell’egemonia lombardo-piemontese di primo Ottocento viene raccolta nel movimento artistico letterario dalla Scapigliatura,che fa di Milano un centro di elaborazione culturale molto attivo, fondando svariate riviste letterarie e soprattutto contribuendo alla nascita di un’immagine di metropoli senza uguali nel panorama italiano del tempo:una metropoli con le sue borgate e il suo proletariato,la sua piccola borghesia impiegatizia e i suoi industriali,che ispirerà nelle opere di Emilio De Marchi e Paolo Valera un realismo assai diverso da quello meridionale.

Più appartata e legata ai vecchi modi romantici, seppure percorsa da fermenti innovativi e da una specifica attenzione per il positivismo,appare la cultura letteraria veneta, che trova nel vicentino Antonio Fogazzaro,il maggior narratore del periodo e in poeti come Aleandro Aleardi, Giacomo Zanella e Vittorio Betteloni gli esponenti di un cauto e faticoso rinnovamento della letteratura in versi.

Ancor più appartato e se possibile ancor meno ricco di risultati significativi si rivela il profilo letterario della Toscana:nonostante la sopravvivenza del mito culturale di Firenze,del resto alimentato nel periodo granducale dal Visseux e dagli intellettuali che intorno a lui si riunivano,la produzione della cultura toscana risulta in questo periodo alquanto scarsa: fatta ecezione per Giosuè Carducci,che mieterà però gran parte delle sue glorie letterarie a Bologna(e bolognese del resto era anche il suo editore Zanichelli),si possono gli unici momenti di autentica originalità nella produzione per l’infanzia di Carlo Collodi.

Un discorso a parte va fatto per Roma,che diviene capitale d’Italia nel momento di più grave degrado della sua cultura e delle sue forze intellettuali:tramortita dall’immobilismo pontificio,ridotta a poco più di borgo popolato per la stragrande maggioranza da artigiani e proletari analfabeti,Roma sconta pesantemente il suo isolamento,che già Leopardi aveva rilevato nel primo ventennio dell'Ottocento. Ma l’indotto creato dai ministeri e dal suo essere divenuta improvvisamente il centro della vita politica del paese rivitalizzerà in breve tempo la città, che già nel 1880 dimostra sul piano culturali forti spinte di ripresa,soprattutto grazie all’attività dell’editore Angelo Sommaruga e alla presenza di immigrati di spicco come gli abruzzesi Gabriele d’Annunzio ed Edoardo Scarfoglio. Anche se la produzione letteraria autoctona lascia ancora a desiderare(l’unico nome di rilievo è il poeta dialettale Cesare Pascarella),la capitale diviene comunque un punto di riferimento per i letterati di tutta Italia,attirati da riviste come ”Cronaca bizantina”o”Nuova Antologia”,la cui risonanza era divenuta addirittura internazionale.